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Quanto rende DAVVERO un ETF nel lungo periodo?

 Oggi analizziamo per bene i rendimenti medi di più ETF nel mercato azionario, dal punto di vista di un investitore di lungo periodo; gli ETF sono spesso considerati come il mezzo di investimento per chi non ha interesse nella gestione attiva e selezione dei titoli uno ad uno, seguendo spesso indici di mercato. La domanda: "Ma quanto rende nel lungo periodo" è certamente una delle più richieste, ed oggi siamo qui per dare una risposta.


Iniziamo con una considerazione fondamentale: un ETF non rende "di per sè": questi strumenti seguono un mercato e dunque replicano il suo rendimento, qualora ci sia. Alcuni ETF seguono l'S&P, altri replicano i mercati dei paesi emergenti, altri ancora titoli di stato od obbligazioni corporate. È un po’ come chiedere “quanto rende una macchina?” senza dire se parliamo di una city car o di una Formula 1. L’ETF non è altro che un veicolo.
Ciò che però rende interessante questo strumento nel lungo periodo è la possibilità di ottenere un’esposizione ampia a una determinata asset class con costi contenuti e una gestione passiva. Prendiamo ad esempio gli ETF che replicano il mercato azionario globale. Uno tra i più citati è l’ETF che segue l’indice MSCI World o l’indice All Country World Index (ACWI). Questi indici includono migliaia di azioni di società di grandi e medie dimensioni, distribuite tra paesi sviluppati e in alcuni casi anche emergenti. Storicamente, questi ETF hanno offerto rendimenti annuali medi che oscillano tra il 6% e l’8% al netto dell’inflazione, su orizzonti di lungo periodo.
Ma è davvero tutto così semplice? In parte sì, in parte no. Perché sebbene nel lungo periodo i mercati tendano a crescere, lo fanno in modo irregolare. E per "lungo periodo" non si intendono due o tre anni, ma almeno dieci, idealmente quindici o venti. Questo è un punto spesso sottovalutato: la pazienza è parte integrante del rendimento. Un ETF che oggi mostra un +15% potrebbe domani essere a -10%. Eppure, nel tempo, la media tende ad emergere. Il problema è che l’investitore medio tende a farsi influenzare troppo dal presente.
Uno degli errori più diffusi è giudicare la bontà di un ETF guardando ai rendimenti degli ultimi 12 mesi. Questa è una prospettiva estremamente limitata e fuorviante. Un ETF che investe in mercati emergenti, ad esempio, può restare piatto o in perdita per anni, salvo poi avere uno slancio significativo quando le condizioni macroeconomiche si allineano. Al contrario, ETF su indici molto maturi e consolidati, come lo S&P 500, possono offrire una crescita più costante ma meno esplosiva.

A questo punto entra in gioco un'altra variabile spesso trascurata: il comportamento dell’investitore. Anche l’ETF migliore del mondo non può rendere nulla se l’investitore compra quando tutti comprano – cioè a prezzi alti – e vende nel panico quando i mercati scendono. Il rendimento reale dunque non è solo dato dalla performance del mercato, ma anche dal comportamento dell'investitore, che entra ed esce.
Una strategia diffusa per la mediazione del rischio è la soluzione del piano ad accumulo di capitale(PAC) utilizzata per ridurre il rischio di mercato tramite la mediazione del prezzo, in quanto stabilendo un valore monetario fisso, in base al prezzo di mercato, acquisteremo ogni mese più o meno quote.
Naturalmente, anche i costi contano. E uno dei vantaggi principali degli ETF è proprio il loro basso costo di gestione. Le commissioni annue sono spesso inferiori allo 0,30%, soprattutto sugli ETF che replicano indici ampi e liquidi. A parità di rendimento lordo, minori costi significano maggior rendimento netto per l’investitore. Ma attenzione: non tutti gli ETF a basso costo sono uguali. Bisogna anche considerare la liquidità dello strumento, il tracking error (ossia quanto fedelmente replica l’indice) e la qualità dell’emittente.
C’è poi un’altra questione spesso trascurata, ma fondamentale: la fiscalità. In Italia le plusvalenze generate dagli ETF sono tassate al 26%. Questo significa che un rendimento nominale dell’8% si traduce in un rendimento netto di circa il 5,9%. Inoltre, gli ETF ad accumulazione e quelli a distribuzione hanno impatti fiscali diversi nel tempo. Gli ETF ad accumulazione reinvestono i dividendi, mentre quelli a distribuzione li staccano periodicamente.
Un altro aspetto da non trascurare è l'inflazione, che normalmente si attesta su un 2% annuo, ma spesso e volentieri sfora questa media e erode quello che è il rendimento. Con un'inflazione al 2% e un rendimento del 7% netto, il rendimento reale netto scende al 5%, che non è assolutamente un ritorno pessimo, anzi.

Ma cosa succede quando i mercati vanno male? Gli ETF non sono immuni ai crolli. Anzi, essendo strumenti passivi, seguono esattamente l’andamento dell’indice di riferimento, sia in salita che in discesa. Ciò sta a significare che gli ETF possono subire anch'essi gravi perdite e non sono esenti da rischi; fortunatamente però la storia ci insegna che i mercati tendono a riprendersi sempre dopo una crisi, lo è stato nel 1974 come nel 2000 con le Dotcom, così come nel 2008 con la crisi immobiliare. Il mercato registrava perdite del 30% ma recuperate nel giro di un paio d'anni e ritorni di nuovi massimi storici. Gli ETF che seguono un indice solitamente premiano la pazienza dell'investitore che, come si suol dire, risulta "morto", ovvero colui che non disinveste ma si lascia "trasportare".
Va anche detto che non tutti gli ETF sono creati uguali. Esistono ETF settoriali, tematici, smart beta, a leva, short... strumenti che possono essere utili per strategie specifiche, ma che non sono necessariamente adatti a tutti. Chi si avvicina a questi strumenti deve sapere che, pur mantenendo la sigla ETF, possono avere una volatilità molto più alta e rischi specifici che vanno ben compresi. L’investitore medio dovrebbe partire da ETF ampi, diversificati, globali, con una lunga storia alle spalle e costi contenuti.
Infine, non si può trascurare l'importanza del tempo. Un ETF globale, mantenuto per 15-20 anni, può davvero fare la differenza nel costruire un capitale importante partendo anche da piccoli importi. I rendimenti composti hanno un effetto potente, ma richiedono tempo e costanza. L’investitore impaziente rischia di vanificare questo potenziale.

Quindi, tornando alla domanda iniziale: quanto rende davvero un ETF nel lungo periodo? La risposta è: dipende da cosa replica, da come viene utilizzato, da quando si entra nel mercato, da quanto si è costanti e da quanto si è disposti a rimanere investiti nei momenti difficili. In linea generale, un ETF globale ben costruito può offrire rendimenti reali del 5-6% annuo su orizzonti superiori ai 10 anni. Ma solo se l’investitore riesce a fare la cosa più difficile in assoluto: non toccarlo troppo spesso.




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